venerdì 17 aprile 2009

NOI E LA CRISI



La crisi noi la si toccava, sebbene non la potessimo comprendere.
Noi non eravamo che molecole invisibili per i grandi della Terra, perché ciò che importava loro era mantenere in vita il marcio. Intanto alla tele lo chef caramellava l’anatra e le strade ribollivano d’amarezza e di sguardi sommessi e di piccole manie crescenti, di lotterie istantanee e movimenti per la vita.
Lo chef infornava in diretta le zucchine al gratin, la colf cingalese passava l’aspirapolvere e le mine antibambino mutilavano: passato e futuro venivano passati al frullatore senza alcuna menzione per l’oggi, per l’istante in cui il ragno tesse la tela, per la frazione d’esistenza che svanisce senza lasciar traccia.
Questa è la crisi, la vera crisi, quella di cui nessuno si occupa. Fuori, nel mondo reale, null’altro che una generazione di robot che attende qualcosa, che talvolta ha le sembianze del giullare di corte.
Questa maledetta crisi si era ormai impossessata dei loro cuori con la forza dell’uragano e la rapidità del giaguaro, e correva sul binario morto che inesorabile conduce alla resa dei conti. Crisi o non crisi, patrizi o plebei, destri o mancini, tutti e tutto avrebbero terminato la loro corsa omaggio in Via Craxi Bettino, proprio dirimpetto a Piazza Caduti di Tangentopoli (bizzarrie del revisionismo toponomastico), dopo avere sgranocchiato popcorn e ruttato pepsi, e volgendo lo sguardo al monte di pietà avrebbero reso ogni addebito alla clemenza del Caro Leader. Più o meno consapevoli. Più o meno felici.

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