giovedì 9 giugno 2011

NUCLEARE? NO, GRAZIE


Bel al di là delle impressionanti tragedie umane di Chernobyl, Fukushima e Three Mile Island, il pianeta ha vissuto per ben 154 volte l’incubo dell’incidente nucleare, sempre con la contaminazione dell’ambiente esterno e l’evacuazione totale della popolazione circostante.

Il copione risulta essere sempre lo stesso: le autorità dapprima negano l’evento, poi lo sottostimano e infine solo quando l’evidenza appare nella sua drammaticità, ne diffondono cautamente la notizia, celando accuratamente i dettagli ed i rischi concreti per la salute della popolazione.
Nessuno ancora sa esattamente quali possano essere le conseguenze delle fuoriuscite radioattive nei decenni a venire e pochi sanno che una centrale nucleare non si possa semplicemente spegnere come si fa con un televisore, ma debba essere sorvegliata per centinaia d’anni fino a quando il nocciolo del reattore non si sia totalmente raffreddato. Le scorie nucleari, invece, quelle sono il vero problema dell’energia cosiddetta “pulita”, perché nessuno ha ancora trovato un luogo sicuro in cui stivarle mentre la loro radioattività permane, per alcune di esse, anche per centinaia di migliaia di anni.
Quindi l’energia nucleare, a fronte d’un vantaggio di breve durata, pone sull’altro piatto della bilancio delle problematiche che, nella migliore delle ipotesi, ricadranno interamente sulle generazioni a venire, sui nipoti dei nipoti, costretti loro malgrado a pagare il conto per scelte altrui, obbligati a convivere con l’incubo delle malattie e dell’insalubrità.
Gli italiani si espressero contro il nucleare nel lontano 1987 con una valanga di no ed i governi che si succedettero alla guida del Paese rispettarono quella scelta. Oggi dopo un quarto di secolo, il berlusconismo ha tentato di aggirare la volontà popolare con un golpe tanto impopolare quanto intempestivo, camuffando l’accordo stipulato sottobanco con la Francia di Sarkozy per garantirsi la loro già obsoleta tecnologia, con un pseudo piano per l’autosufficienza energetica che puzza di bufala. Persino nel Paese al mondo che ha iniziato l’era del nucleare a scopi prima militari e poi civili, cioè gli Stati Uniti d’America, sono anni ed anni che non si costruiscono più nuove centrali, mentre l’oculata gestione Obama sta invece investendo miliardi di dollari verso le energie davvero pulite dell’eolico e del solare. Esattamente la stessa scelta che stanno portando avanti la Germania e tutti le nazioni più avanzate dell’occidente. La Sardegna, una delle regioni più sottosviluppate d’Europa, prima del disastro di Fukushima, nei disegni dell’attuale governo risultava essere la meta ideale per accoglierne una, nella piana di Cirras, tra Santa Giusta ed Arborea. - E figuriamoci se un popolo abituato a convivere da millenni con i soprusi dei colonizzatori- pensai - si ribellerà per quest’ennesimo stupro del suo territorio -. E invece il miracolo avvenne. Il 15 Maggio dell’anno di grazia 2011 i sardi iniziarono la loro lenta riscossa, affollando in massa le urne elettorali ed urlando in coro e democraticamente la loro voglia di popolare ancora per chissà quanti altri millenni, la terra dei loro avi. D’accordo, rimangono ancora da cacciare via gli avvelenatori di Quirra e gli stupratori di Sarroch, così come c’è da ridare dignità ai nostri pastori ed ai lavoratori delle mille isole dei cassintegrati che affollano ancora di nubi dense la rinascita della nostra nuova coscienza di sardi che verrà, finalmente.


venerdì 13 maggio 2011

Caro ....traghetto

Siamo alle solite. Un altro pesantissimo cartello, cioè un accordo vietato dalle vigenti norme antitrust, quello attuato dalle società di navigazione, penalizzerà la Sardegna ed i sardi, con gravi conseguenze per il turismo, una delle principali voci attive del bilancio d’una Regione di per sé povera, anzi poverissima. E dire che per degli isolani la gestione del trasporto marittimo dovrebbe essere, oltre che un’attitudine, un’assoluta priorità. Ma così non è, da millenni, dopo che i gloriosi Shardana levarono le ancore verso il popolo dei faraoni a conquistarsi la gloria, lasciando in eredità alla povera Sardegna solamente frotte di avidi colonizzatori, che devastarono, sterminarono, arsero, distrussero la memoria d’un popolo una volta fiero ed orgoglioso ed oggi invece avvilito dall’inerzia d’una classe politica imbelle, che rappresenta meravigliosamente, con la propria inadeguatezza, il senso d’una estinzione annunciata.

Purtroppo l’esiguità numerica dei sardi, unita alla loro storica disunione ed associata al crescente livello di scoraggiamento collettivo, stanno conducendo un popolo intero verso un fatale declino, verso l’umiliazione e la fine, senza alcuna reazione, senza neppure mostrare un anelito di resistenza.
E’ triste per un sardo morire lentamente, agonizzare assieme ai patriotici fratelli martiri della Vinyls, costretti ad un esilio volontario nell’isola carcere, per chiedere giustizia e solidarietà per un lavoro che non c’è più, per ricevere ascolto e interessamento verso una causa che pare non interessare nessuno. Riecheggiano così inascoltati i lamenti di Gavino e Bachisio tra le valli giallo verde di Cala Reale, mentre la voce roca del maestrale s’inghiotte per sempre la loro immensa solitudine.
Perché il nuovo colonialismo è già tra di noi e ci invade quotidianamente con le angherie e i soprusi cortesi che nessun orecchio attento può intendere e nessuno sguardo vuole vedere. E’ fatto di portavoce ministeriali che parlano un linguaggio suadente, senza raddoppiare le consonanti né terminare le parole con le U, senza accenti sdruccioli né latinismi biascicati.

Il nuovo colonialismo sa parlare l’inglese ed il russo, il cinese e l’arabo e nessuno tra il popolo sardo lo può comprendere e quindi avversare.
Le multinazionali viscidamente s’insinuano nei poderi e negli stazzi modificando geneticamente vacche e mais, frullando cromosomi ed angurie a creare il nuovo veleno che ha le sembianze rassicuranti della nepente, attirando a sé con il miraggio del benessere che porterà solo nei caveau di qualche ricca banca svizzera. E così velocemente come arrivano, altrettanto rapidamente se ne vanno via, ammorbando il mare di Orimulsion e le campagne d’uranio impoverito.
Cos’altro ancora, tutti noi sardi, dovremo subire prima di levarci dagli occhi le quattro bende del profetico vessillo, per ritornare finalmente ad impossessarci della nostra isola, della nostra dignità e del nostro futuro?

domenica 8 maggio 2011

RECENSIONE DI "SARDIGNOLO" DI ALBERTO MARIO DELOGU


Esistono numerosi buoni motivi per leggere e gustarsi le 147 pagine di Sardignolo, un racconto epistolare sulla Sardegna e sulla sardità. Il pretesto narrativo scelto dall’autore, pur non risultando originale nella scelta, lo è tuttavia nello sviluppo di un linguaggio sardish gustosissimo e nell’uso sapiente d’una infinita gradazione di neologismi e di scherzi cacofonici che sorprendono il lettore per l’acutezza e l’appropriatezza. Mariano Laconi, sardo emigrato in Canada (come lo è anche l’autore Alberto Mario DeLogu), illustra all’amico Bachisio, tramite una serie di gustosissime missive, l’immagine che egli si è fatto della Sardegna pur vivendo a migliaia di chilometri di distanza. Il cuore di Mariano pompa nelle arterie il rombo impetuoso del maestrale, sibila alle sue orecchie il silenzio perpetuo dei nuraghe e dei menhir, ama ed odia, distrugge e corrobora. Il suo animo isolano s’intinge del desiderio genetico del ritorno a domo ed allo stesso tempo ne rifugge alimentando quella sardità che è saudade, che è la soluzione finale alla cronica melanconia di Toninu e Filippu scomparsi precocemente nella cronica lotta per la loro sopravvivenza. Ora i polmoni di Mariano sono gonfi dello iodio del Mediterraneo e le sue narici s’inebriano di bacche di ginepro e di cisto prima che la prossima espirazione s’inghiotta quel mondo virtuale fatto di natura incontaminata, di spiagge vergini, di boschi inesplorati.
Al prossimo respiro quegli stessi luoghi si popoleranno di schiamazzi continentali e di paninoteche, di Hammer super accessoriate e di leppe made in China, di mozzarelle al cobalto e salsiccione di maiali della Transilvania. Quindi Mariano deglutirà nervosamente permettendo ai ricordi di scoprire quel nome che per la maggior parte dei sardi è solo un nome proprio, mentre rappresenta l’essenza della sardità: il primo Giudice che provò a trasformare, senza purtroppo riuscirvi, un’accozzaglia informe di genti in un popolo vero ed unito. Quindi Alberto Mario (pardon Mariano) ci racconta le mille imboscate di Spagnoli, francesi, piemontesi, milanesi ed arabi atte a cancellare per sempre l’unicità di una razza diversa, che ha sempre avuto il difetto di sentirsi inferiore e sottomessa all’invasore di turno, che si chiamasse Bogino o Rovelli, che arrivasse con i cavalli anglo arabi o con i traghetti putrescenti della Tirrenia, che colonizzasse la Costa Smeralda o creasse le servitù militari, che avvelenasse la madre terra nel sacro nome della petrolchimica o del carbone, che stuprasse una volta per tutte l’ingenua ingenuità dei galluresi come dei campidanesi, dei sulcitani e dei maddalenini, in un orgiastico pasto ai quali i padroni di casa venivano puntualmente lasciati fuori dal desco.


Perché i sardi sono fatti così, pocos locos e malunidos da sempre e per sempre e nemmeno vogliono conoscere la propria gloriosa storia né desiderano offrire dignità alla loro ancestrale lingua, mentre piangono di malinconia solo quando attraversano il mare per trovarsi uniti in qualche circolo quattro mori alla periferia dell’altro mondo, che non ha il mare più bello del mondo o le campagne più verdi o le montagne che parlano al cuore.

Bachisio, come tutti i sardi, sa ascoltare in silenzio le mille contraddizioni d’un popolo mancato, che Mariano recita con incedere impietoso, che vive nella rassegnata attesa e che puzza già nella precoce condanna alla sottomissione del ricercatore trombato di “Universitas Sardorum”, o nella yuppismo postreganiano dei “menager” di Monte Urpinu con cravatta e abitino griffato al seguito.
Insomma, Sardignolo traccia una diagonale scomoda ed irregolare sulla Shardana che i protagonisti evocano continuamente come in un volo onirico, accompagnati dalle voci talvolta disilluse delle sue genti, che si dividono in sardi di Sardegna ed in emigrati, gli ultimi dei quali si materializzano soltanto in occasione delle votazioni o di bonifici rivolti ai primi.

Seicentomila apolidi come Mariano che è combattuto tra il desiderio innato d’amare la sua patria ed il razional pensiero di continuare a beneficiare dello status di cittadino nordamericano, ponendo sul piatto della bilancia i pro e i contro al suo inconscio, offrendo una prospettiva di cambiamento all’amico Bachisio nelle taglienti sferzate verso i grotteschi personaggi che animano il suo epistolario, che alla fine lo condizioneranno nella scelta di abbandonare la Sardegna per riprendersi quello status di emigrato che forse in fondo è il suo marchio di fabbrica.
La Sardegna di Alberto Mario DeLogu è vuota degli artefici del disastro economico e culturale nel quale è sprofondata: per scelta, suppongo, non vengono mai menzionati quei politici che, grazie alle loro non scelte, hanno contribuito non poco a creare una voragine tra l’isola e il continente in maniera molto più incisiva rispetto ai duecento chilometri di Mar Tirreno o della sua differente struttura geologica rispetto alla penisola.

Questa Sardegna presenta ancora così tante incognite ed incompiute che speriamo l’autore possa farle emergere, utilizzando la medesima autoironica sapienza che ha espresso in Sardignolo, per permetterci di godere di un breve sorriso buono almeno per interrompere il secolare pianto.


domenica 30 gennaio 2011

TEMPUS FUGIT



Ho messo il cervello a riposo
l’ho immerso in una boccia di gel
ho levato l’aria e l’ho ibernato
ci ho pisciato sul lobo destro
e poi l’ho lanciato nello spazio.
Quindi ne ho raccolto degli altri
ed ho ripetuto lo stesso trattamento.
Sono diventati migliaia, decine di migliaia
milioni di milioni,
generazioni di robotizzati acefali molluschi
che camminano senza meta,
come platani sventolano le loro braccia a tenaglia
senza farsi intimorire
né dalla rivoluzione precoce
né dai canti dei savi
né dalle favole di La Fontaine
perché la Natura non sa credere alle idiozie
è muta,
muta
e piove le sue stesse lacrime
e vomita i suoi stessi liquidi
inconsapevolmente
trascinando nel suo mondo
tutta quella perfezione,
fino a sublimarla nell’humus primordiale.
Che è nulla.