Esistono numerosi buoni motivi per leggere e gustarsi le 147 pagine di Sardignolo, un racconto epistolare sulla Sardegna e sulla sardità. Il pretesto narrativo scelto dall’autore, pur non risultando originale nella scelta, lo è tuttavia nello sviluppo di un linguaggio sardish gustosissimo e nell’uso sapiente d’una infinita gradazione di neologismi e di scherzi cacofonici che sorprendono il lettore per l’acutezza e l’appropriatezza. Mariano Laconi, sardo emigrato in Canada (come lo è anche l’autore Alberto Mario DeLogu), illustra all’amico Bachisio, tramite una serie di gustosissime missive, l’immagine che egli si è fatto della Sardegna pur vivendo a migliaia di chilometri di distanza. Il cuore di Mariano pompa nelle arterie il rombo impetuoso del maestrale, sibila alle sue orecchie il silenzio perpetuo dei nuraghe e dei menhir, ama ed odia, distrugge e corrobora. Il suo animo isolano s’intinge del desiderio genetico del ritorno a domo ed allo stesso tempo ne rifugge alimentando quella sardità che è saudade, che è la soluzione finale alla cronica melanconia di Toninu e Filippu scomparsi precocemente nella cronica lotta per la loro sopravvivenza. Ora i polmoni di Mariano sono gonfi dello iodio del Mediterraneo e le sue narici s’inebriano di bacche di ginepro e di cisto prima che la prossima espirazione s’inghiotta quel mondo virtuale fatto di natura incontaminata, di spiagge vergini, di boschi inesplorati.
Al prossimo respiro quegli stessi luoghi si popoleranno di schiamazzi continentali e di paninoteche, di Hammer super accessoriate e di leppe made in China, di mozzarelle al cobalto e salsiccione di maiali della Transilvania. Quindi Mariano deglutirà nervosamente permettendo ai ricordi di scoprire quel nome che per la maggior parte dei sardi è solo un nome proprio, mentre rappresenta l’essenza della sardità: il primo Giudice che provò a trasformare, senza purtroppo riuscirvi, un’accozzaglia informe di genti in un popolo vero ed unito. Quindi Alberto Mario (pardon Mariano) ci racconta le mille imboscate di Spagnoli, francesi, piemontesi, milanesi ed arabi atte a cancellare per sempre l’unicità di una razza diversa, che ha sempre avuto il difetto di sentirsi inferiore e sottomessa all’invasore di turno, che si chiamasse Bogino o Rovelli, che arrivasse con i cavalli anglo arabi o con i traghetti putrescenti della Tirrenia, che colonizzasse la Costa Smeralda o creasse le servitù militari, che avvelenasse la madre terra nel sacro nome della petrolchimica o del carbone, che stuprasse una volta per tutte l’ingenua ingenuità dei galluresi come dei campidanesi, dei sulcitani e dei maddalenini, in un orgiastico pasto ai quali i padroni di casa venivano puntualmente lasciati fuori dal desco.
Perché i sardi sono fatti così, pocos locos e malunidos da sempre e per sempre e nemmeno vogliono conoscere la propria gloriosa storia né desiderano offrire dignità alla loro ancestrale lingua, mentre piangono di malinconia solo quando attraversano il mare per trovarsi uniti in qualche circolo quattro mori alla periferia dell’altro mondo, che non ha il mare più bello del mondo o le campagne più verdi o le montagne che parlano al cuore.
Bachisio, come tutti i sardi, sa ascoltare in silenzio le mille contraddizioni d’un popolo mancato, che Mariano recita con incedere impietoso, che vive nella rassegnata attesa e che puzza già nella precoce condanna alla sottomissione del ricercatore trombato di “Universitas Sardorum”, o nella yuppismo postreganiano dei “menager” di Monte Urpinu con cravatta e abitino griffato al seguito.
Insomma, Sardignolo traccia una diagonale scomoda ed irregolare sulla Shardana che i protagonisti evocano continuamente come in un volo onirico, accompagnati dalle voci talvolta disilluse delle sue genti, che si dividono in sardi di Sardegna ed in emigrati, gli ultimi dei quali si materializzano soltanto in occasione delle votazioni o di bonifici rivolti ai primi.
Seicentomila apolidi come Mariano che è combattuto tra il desiderio innato d’amare la sua patria ed il razional pensiero di continuare a beneficiare dello status di cittadino nordamericano, ponendo sul piatto della bilancia i pro e i contro al suo inconscio, offrendo una prospettiva di cambiamento all’amico Bachisio nelle taglienti sferzate verso i grotteschi personaggi che animano il suo epistolario, che alla fine lo condizioneranno nella scelta di abbandonare la Sardegna per riprendersi quello status di emigrato che forse in fondo è il suo marchio di fabbrica.
La Sardegna di Alberto Mario DeLogu è vuota degli artefici del disastro economico e culturale nel quale è sprofondata: per scelta, suppongo, non vengono mai menzionati quei politici che, grazie alle loro non scelte, hanno contribuito non poco a creare una voragine tra l’isola e il continente in maniera molto più incisiva rispetto ai duecento chilometri di Mar Tirreno o della sua differente struttura geologica rispetto alla penisola.
Questa Sardegna presenta ancora così tante incognite ed incompiute che speriamo l’autore possa farle emergere, utilizzando la medesima autoironica sapienza che ha espresso in Sardignolo, per permetterci di godere di un breve sorriso buono almeno per interrompere il secolare pianto.
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