domenica 11 gennaio 2009

ricordando Fabrizio De Andrè



L’undici gennaio sarà una data importante. Dieci anni fa terminava la sua esperienza terrena Fabrizio De Andrè, uno di noi, che ci ha fatto amare la poesia e l’amore. Persone come lui ne nascono troppo poche, purtroppo. E quando nascono sono costrette a vivere una vita all’ombra delle becere convenzioni, fuori dai riflettori, senza volto né voce, oscurati dalle ipocrisie del nostro piccolo mondo e dai giostrai che gridano forte ai bambini.
Quel giorno un soffio leggero attraverserà le nostre coscienze pigre, e per un momento avremo davanti a noi la dolcezza d’una prostituta, il sorriso fanciullesco d’un barbone, parole che si fanno emozione, cannoni che diventano orchidee e re che scendono dai troni per unirsi agli uomini.
In fondo non era altro che un narratore di favole senza morale, senza finale, forse senza neanche la storia perché poi c’era la voce semplice della chitarra a fare da cornice alle atrocità della guerra, alle miserie d’un mondo fatuo che s’accende ad intermittenza. “Faber” dava voce ai miserabili di questa Terra, ai reietti, ai paria, agli ultimi tra gli ultimi, ai senza casa e ai senza spada. A lui toccò vederlo l’inferno dell’anima quando qualche balordo lo tenne in prigionia assieme alla sua Dori per quattro mesi. E lui la conosceva bene la meschinità umana e le bestie immonde che questa può generare, per cui comprese i suoi aguzzini e li perdonò. Un giorno qualsiasi in un mondo qualsiasi, tutti noi ci troveremo a cantare con lui “Bocca di Rosa” sulla nostra cattiva strada.